Dall’Avvenire dei lavoratori del 13/2/2020 riprendiamo la II parte del testo scritto da Gennaro Acquaviva nel 2002 per la rivista “Reset” dedicato alla figura e all’opera di Bettino Craxi.
e-settimanale della più antica testata della sinistra italiana
Direttore Andrea Ermano
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Il lungo “decennio craxiano”, tra la morte di Aldo Moro e la caduta della Prima Repubblica, ripercorso con uno spirito di sana dissacrazione verso il paludato tema del potere. Al centro c’è Bettino Craxi, personaggio complesso, ultima grande personalità politica del Novecento italiano. Gennaro Acquaviva, stretto collaboratore del leader socialista, ci offre una ricostruzione di “quegli anni”, buttata giù di getto all’indomani della morte a Hammamet e pubblicata poi, su “Reset” nel 2002. Il gruppo di Craxi fu una classe dirigente che conquistò prima la guida del PSI e poi il governo del Paese imprimendo all’Italia un ultimo importante impulso di progresso politico, sociale ed economico.
CAMBIARE TUTTO NEL PSI. NOI IL GRUPPO DI CRAXI – parte seconda
di Gennaro Acquaviva
Roma “umida e antilavorativa”. – Standogli accanto in quel periodo mi si aprì davanti un altro personaggio rispetto al deputato assunto a tempo parziale come vice-segretario, e che considerava Milano il centro del mondo e Roma una città “umida e antilavorativa”. Era soprattutto curioso e sempre voglioso di capire, di approfondire, di andare a fondo delle cose. Aveva delle idee sue sulla politica, sugli uomini, sulle società, sulla sinistra che non combaciavano in niente con quelle allora usuali dentro il brutto palazzone di via del Corso. Era soprattutto controcorrente rispetto a quell’aria stantia e rutiniera, che emanava fatalisticamente dal terzo piano, dal vertice del partito: da una testa che, a ragione o a torto, si era ormai intimamente convinta della funzione residuale dei socialisti.
Questa sua voglia di buttare tutto all’aria, questa coscienza netta dell’indispensabilità di rinnovamento del partito proprio per salvare la sua autonomia, era però costantemente paragonata con una posizione, la sua, talmente minoritaria che obbligava chiunque volesse continuare a vivere nel partito su quelle posizioni, ad una politica di piccoli passi, mossi sempre con grande prudenza e parsimonia. E così mentre il suo compagno di corrente, responsabile dell’organizzazione, Rino Formica poteva aver licenza di proporre un’ambiziosa (ma alla fine di scarsa incidenza) riforma organizzativa, il giovane vice-segretario si poteva occupare tutt’al più di relazioni internazionali ma, per il resto, meno si impicciava e meglio era.
Per questo, in quei pochi giorni centrali della settimana in cui stava lontano da Milano, Craxi aveva il tempo (e la voglia) di interessarsi di altro: di andare a incontrare l’allora potente direttore di “Civiltà Cattolica” padre Sorge o di farsi raccontare dettagliatamente la mitica storia delle Acli e della loro battaglia gloriosa (e perdente) per rompere il vincolo dell’unità politica dei cattolici nella Dc.
L’attenzione al mondo cattolico. – Fu un periodo intenso, ma breve, che si interruppe con la preparazione del congresso di Roma del ’76 e le elezioni politiche immediatamente successive. Ad un certo punto impostammo insieme uno schema di incontro-colloquio sui cattolici, la loro storia recente, la loro organizzazione, la loro leadership, un incontro ad uso interno, che doveva soprattutto informare, sforzarsi di capire e di farsi capire rompendo con una tradizione di ignoranza e di lontananza che aveva visto poche eccezioni nei trent’anni del dopoguerra.
Non avemmo il tempo di realizzarlo. Ma quella frequentazione mi permise comunque di capire come lavorava la sua testa, come si muoveva nel costruire e vivere appassionatamente la politica. Lui era l’unico socio di se stesso: non ne aveva altri, non si divideva con altri. Aveva fatto apprendistato e successivamente delle battaglie, anche ideali, che lo avevano unito a gruppi di compagni (i suoi amici milanesi; e, non mischiati, i capi locali della piccola corrente autonomista); ad essi rimaneva legato da sentimenti forti, nutriti di nostalgia e di ricordi, anche intrisi di riconoscenza e di affetto. Ma lui era un altro da loro; un altro che si era formato delle convinzioni, in battaglie comuni, che aveva capito fino in fondo, e non dimenticava, le ragioni della fraternità tra compagni; ma che ormai voleva fortemente, come per una predestinazione, camminare da solo, raggiungere la sua metà, esprimere fino in fondo la sua leadership.
A ben guardare, il “miracolo” del Midas e soprattutto la straordinaria abilità con cui Craxi riuscì, in appena tre anni e mezzo, a domare un Partito che faceva della rissosità sua prevalente ragione di vita, possono essere spiegati solo alla luce di questa caratteristica fondamentale sella sua personalità. Io la riconobbi subito, dai primi incontri in quella stanza buia e disadorna di via del Corso, mentre continuava a domandarmi, curiosissimo, di preti e cardinali, di concistori e lettere apostoliche, di Azione cattolica e di Acli.
Il suo schema di relazioni partiva dunque da se stesso, dalla sua autonomia, dalla sua fortissima volontà di non sottomettersi a quella di altri. Con lui al centro, in cerchi via via più distanti, erano collocati i suoi interessi, i suoi ambienti di relazione spesso distaccati da quelli di comunanza politica, i suoi compagni di battaglie; e poi quelli che lavoravano con lui, giorno dietro giorno. Per questi ultimi, sempre pochissimi, aveva nel quotidiano grande affabilità e semplicità di approccio cercando di non far prevalere la sua voglia di comando: erano suoi compagni di strada, non dei dipendenti che lui aveva prescelto con acume e grande prudenza, che aveva visto passare per un’infinità di prove: di essi si fidava, ma si fidava alla sua maniera, perché da buon milanese era convinto che “a pensar male si fa peccato, ma si indovina sempre”.
Cambiare tutto nel Psi. Questo cerchio ristretto di persone era comunque di là da venire nel luglio 1978, allorché il giovane neo segretario del “più antico partito d’Italia” entrò nel brutto portone di quel brutto palazzo che rispondeva all’indirizzo romano di via del Corso 147. Se aveva voglia di cambiare tutto nel Psi non lo dette certo a vedere né quel giorno né per molti dei successivi; e di fatto non cambiò un bel niente della sua vita apparente.
Sulla porta della direzione continuarono a rivolgergli lo stesso saluto, un po’ strafottente e fin troppo romanesco, i compagni di servizio: un saluto che non sarebbe mai cambiato e che lo avrebbe accompagnato sempre, anche quando era ormai diventato uno statista di livello mondiale: “Ciao Bettino!”. Al terzo piano continuò ad abitare a lungo in quella stessa stanza lunga e buia, con un tavolone che sembrava preso di peso da un refettorio di frati; nello stanzino accanto il bel volto di Daniela Scarso, a filtrare un po’ di telefonate, seduta ad un tavolinetto che impicciava più che aiutarla a lavorare.
In quei giorni, infatti, non c’era proprio da pensare a costruire qualcosa, fosse un gruppo o una prospettiva politica più lontana di un palmo di naso; l’obbligo per tutti era di lavorare, e ancora lavorare, per non fare accadere quello che sembrava inevitabile: una resa a discrezione nei confronti del sistema dominante (che era ormai totalmente cogestionario); la consegna delle spoglie residue al vincitore dichiarato della battaglia “a sinistra”, il partito comunista. Nelle vecchie foto ingiallite, quelle fatte per immortalare lo “storico” incontro di Berlinguer e Moro che varano il governo del compromesso storico, la “pelata” di Craxi è visibile a stento sullo sfondo. E lui, in quei giorni difficili, si collocò sullo sfondo, quasi mimetizzandosi nella tappezzeria della politica. Dall’alto della tribuna della Camera lo ascoltai, un po’ trepidante, pronunciare il suo primo discorso da segretario (agosto 1976), nel dibattito sulla fiducia nel governo di solidarietà nazionale. L’aula, naturalmente, era pressoché vuota, salvo pochi intimi, quasi tutti socialisti; Andreotti sedeva al centro del banco del governo, immobile come suo solito, e non alzò mai la testa per guardare l’oratore ma continuò imperterrito a trafficare tra le sue carte, e lo guardò solo quando Craxi gli ricordò ironicamente che i voti, alla fin fine, andavano non solo contati ma anche pesati.
Questo è quello che cercò di fare il nuovo segretario, sforzandosi di rimettere in moto una macchina tutta anchilosata; ma soprattutto guardando alle ragioni della politica, alla ricostruzione di una posizione che consentisse ai socialisti di manovrare, come era possibile, tra le due torri dominanti, però mantenendo contemporaneamente un ancoraggio solidissimo con la posizione comunista.
Ero andato, questa volta, a lavorare con lui, nella stanza accanto alla sua, al terzo piano. Stava solo, lavorava senza nessuno, salvo la segretaria; l’unico “apparato” ero io: ed anche io lo avevo seguito quasi senza un disegno, sicuramente senza che lui pensasse di chiamarmi. A ripensarci, a tanti anni di distanza, fu una vicenda quasi comica. Il Comitato centrale del Midas, alla fine della lunga litania, aveva finalmente eletto una nuova direzione in sostituzione di quella dimissionaria che aveva De Martino come segretario; una direzione che era allora composta di venticinque membri eletti con il bilancino (e cioè le percentuali) delle correnti: praticamente, in Comitato centrale non si volava ma si prendeva atto delle designazioni che avanzavano le correnti, dove invece ci si contava sul serio. Io ero allora in quota alla Sinistra: un lascito della nostra entrata con Labor nel 1972 che, come continuava a dire quella buonanima di Livio, “si era iscritto non al Psi ma alla sinistra lombardiana”. La Sinistra, alla fine di un lungo torcibudello, aveva deciso di accettare Craxi segretario, sacrificando il proprio candidato iniziale che era Giolitti; dal mio punto di vista, di uno che faceva il tifo per Craxi, questo andava bene, anzi, benissimo; meno bene erano le conseguenze personali, quelle di un “peones” che aspirava fortemente ad entrare in Direzione, ma che non trovava un cane che lo appoggiasse. Tra l’altro, la mia ipotetica elezione confliggeva con l’altro “cattolico” della sinistra, e cioè Luigi Covatta, che si faceva forte di una specie di “diritto di successione” al seggio che gli derivava dalla fuoriuscita di Labor, che non si ricandidava essendo stato eletto senatore. Per farla breve: capii rapidamente che in nessun caso ce l’avrei fatta ad entrare in direzione e mi predisposi una soluzione di ripiego che però mi avrebbe consentito di non rimanere a piedi mentre quello che ritenevo (e con buone ragioni) il treno del rinnovamento, con a bordo la nuova classe dirigente socialista, mi sfilava davanti. (2. – Continua)