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Fondazione Socialismo e Mondoperaio per ricordare Bettino Craxi nel ventennale della morte

La Fondazione ha promosso un momento di preghiera in memoria del nostro compagno Bettino Craxi morto il 19 gennaio 2000, nella sua casa di Hammamet. Nella Basilica romana di Santa Maria in Trastevere, alle ore 9 di sabato 18 gennaio, è stata celebrata una Santa Messa in suo ricordo a cui erano presenti molti suoi antichi compagni ed amici. Ha celebrato la Messa il Parroco Don Marco Gnavi e nelle intenzioni di preghiera lette da Gennaro Acquaviva l’assemblea ha pregato per Bettino, Papa Francesco e la nostra amata Patria.
Riportiamo quattro testi di cronaca apparsi sui media in occasione di questo evento.
La rivista della Fondazione, il mensile Mondoperaio, pubblica nel numero 1/gennaio 2020 un dossier su Bettino Craxi che contiene riflessioni e ricerche storico-critiche di alto profilo dedicate al leader socialista. In questo medesimo numero della rivista sono anche richiamati i titoli dei 10 volumi della collana “Gli anni di Craxi” che la Fondazione Socialismo ha realizzato tra il 2005 e il 2019; ed è ricordata l’importante ricerca in corso di realizzazione che è dedicata alla costruzione di una “Biblioteca Craxi online” e che sarà completata entro marzo 2020.


Luigi Accattoli, Craxi o della mia lentezza d’anima
da Il Regno 4/2000

Craxi, infine. All’altezza della sua morte, cioè in una posizione di relativa verità nei suoi confronti, ci sono arrivato – ho già detto – non solo dopo la sua morte fisica, ma con personale travaglio.
Che c’entra Bettino Craxi, con questi testimoni della fede? Nulla, ma anch’egli è un fratello che muore e anche per lui sono andato in confusione al momento della morte, avvertendo davvero solo allora – e cioè troppo tardi – l’offesa che gli era fatta. Aveva delle responsabilità, certamente. Ma è stato colpito in modo sproporzionato: ha fatto quello che facevano tutti, solo esponendosi di più e ha pagato anche per gli altri.
Ho apprezzato quelli che hanno sfidato l’opinione pubblica – o i media: forse l’ipersensibilità anticraxiana era più dei media che della gente – e hanno tentato qualcosa perché Craxi potesse tornare in Italia a curarsi, o sono andati ad Hammamet per l’ultimo saluto. Ancora di più ho apprezzato Cossiga che è andato laggiù quando Craxi era ancora in vita e l’ha chiamato “amico” e dopo la morte è tornato laggiù e al momento della sepoltura – dato che non c’erano preti – ha preso per mano Anna e Stefania sconvolte e le ha aiutate a dire l’Eterno riposo.
Non ho mai votato per Craxi, né per Cossiga, né per Berlusconi, che è andato anche lui laggiù per quella messa: ma questo non interessa, lo dico solo per chiarire che qui parlo della morte – cioè della vita – e non di politica. Ho apprezzato anche il ministro Dini e il sottosegretario Minniti che sono andati laggiù nella posizione più scomoda. Tutti costoro – in questa occasione – sono stati migliori cristiani di me. Ma non è questo che interessa.
Il punto che mi preme è quest’altro: da quando Craxi è stato messo sotto accusa, e dunque per ben otto anni, io non ho saputo portarmi all’altezza della sua morte. Non sono riuscito cioè a guardare alla sua vicenda con gli occhi con cui la vedo ora.
Ora riesco a configurarmi l’uomo, che mi è sempre sfuggito. Eppure in tre occasioni – a Palazzo Chigi, in via Del Corso e in Vaticano – gli ho fatto domande, essendo presente come giornalista ai suoi trionfi. Tante volte ho scritto di lui. Per ragioni professionali ho ascoltato e letto per intero suoi discorsi e saggi. Ho studiato a lungo la riforma del Concordato da lui voluta “con intelligenza e coraggio”, dice ora il vescovo Nicora. Sul Concordato ho curato persino una pubblicazione, dodici anni fa.
Dunque avevo tutti gli elementi per vedere oltre e non ci sono riuscito.
Nel caso di don Emilio mi ha tradito la ricerca di notizie, che lui non aveva. Nel caso di Craxi, forse l’esigenza di avere in mente – magari sullo sfondo di tangentopoli – un vero cattivo: intendo dire un’immagine temibile di politico corrotto e corruttore. Non potevano bastare gli inermi Citaristi e Forlani. Né il povero Armanini. Né i dodici suicidi che tangentopoli (o i titoli dei giornali che anticipavano come condanne gli avvisi di garanzia: perché la sostanza di tangentopoli è certo da apprezzare) ha provocato in un solo anno, tra il 1992 e il 1993.
Ora abbiamo visto la lettera di Craxi al papa – letta ai giornalisti dalla figlia Stefania e pubblicata dai giornali il 21 gennaio – in risposta agli auguri per l’intervento chirurgico di novembre: “Santo padre, don Verzè mi porta il suo messaggio augurale. Grazie. La mia grande fiducia è in lei. Offro la mia sofferenza per il mio paese e per le intenzioni di vostra santità”.
Ora sappiamo – da una dichiarazione del vescovo di Tunisi, Fouad Twal, che ha celebrato la messa di addio – che il Craxi esule “stava scrivendo un libro sui martiri cristiani del Nord Africa” e che “la fede non l’aveva mai perduta: credeva nell’esistenza di Dio e nell’immortalità dell’anima, leggeva il Vangelo e lo conosceva bene”.

Guardare a tutti – e per tempo – con gli occhi della pietà
Ora che abbiamo visto le sue mani intrecciate alla corona del rosario che gli aveva mandato il papa, siamo in grado di guardare a Craxi con pietà. Ora tutti gli invochiamo la misericordia del Signore. Ora rivediamo il giudizio. Una dichiarazione di Navarro-Valls e il messaggio del papa alla vedova Anna, una prima dichiarazione di Attilio Nicora sulla revisione del Concordato (ma accenna anche alla fede “che non gli era estranea”) e una successiva del card. Ruini sull’opera politica aiutano anche i più restii ad andare verso “un’interpretazione equa e sincera” (Ruini).
Ma oggi è tardi. Un cristiano dovrebbe riuscire a guardare a tutti i fratelli, e per tempo, con gli occhi della pietà. Lo sguardo della pietà è quello che più si avvicina alla veduta che di quel fratello ha il Signore, nella sua misericordia. Portarsi all’altezza della morte di qualcuno vuol dire guardarlo in vita con quell’occhio che generalmente di è donato solo in morte, quando il suo passaggio dalla vita ci tocca davvero.
Analogamente portarsi all’altezza della propria morte (che è operazione primaria della vita cristiana) vuol dire guardare alla propria avventura dal punto di vista del giudizio di Dio. Se io mi porto all’altezza della morte guardo solo all’essenziale, non mi perdo in rispetti umani, non faccio di una paglia un pagliaio perdendo la misura delle cose.
I cristiani sono stati capaci di dire su Craxi una parola diversa rispetto a quella degli altri, lungo gli anni? Mi pare di no. E mi pare che questo sia stato un errore. E non lo dico dei vescovi, o della CEI, ma di me e di te che leggi. Perché mi pare che né io né tu l’abbiamo fatto ed è questo nostro dovere di cristiani comuni che mi interessa.
Forse l’abbiamo pensato che era ingiusto far morire in quell’esilio Craxi e rischiare che se ne andasse sotto quei processi Andreotti. Certamente abbiamo pensato che non era giusto processare senza sosta il malatissimo Citaristi: ha accumulato venti processi e oltre trent’anni di carcere, tutti lo considerano onesto e nessuno sa dire su di lui una parola sensata. E io personalmente ho tremato sentendolo raccontare d’aver “invocato spesso” la morte e di aver scampato il suicidio “solamente per la fede”.
Forse abbiamo pensato che tutto ciò non era secondo il Vangelo. Ma non l’abbiamo detto – neanche in famiglia e forse neanche a noi stessi – per non comprometterci, o per non compromettere il Vangelo. Se un cristiano non si vergogna del Vangelo, deve dire ogni sentimento che gli viene di là. Senza timore di compromettere la parola di Dio, che è come una spada che taglia da ambedue le parti e che nessuno può compromettere. E soprattutto senza timore per la nostra compromissione, almeno se non facciamo politica.
Alcuni cristiani hanno difeso Craxi per ragioni politiche. Altri per ragioni politiche l’hanno combattuto. Ma una pietà non politica e tuttavia reale, cristianamente motivata, per Craxi vivo non l’abbiamo espressa. Tra i cristiani d’Italia c’è questa tentazione del nascondimento – fino al nascondimento della pietà – davanti alle questioni controverse, forse in reazione alla sovraesposizione politica (compresa la sovraesposizione della pietà) dei decenni democristiani.
L’invito a non vergognarsi del Vangelo è anche un invito a ribellarsi all’indebito nascondimento dei cristiani, che rende clandestino il Vangelo nella nostra società.


Nico Spuntoni, Craxi e la fede, un rapporto poco conosciuto
su Radio Maria 22 /1/2020

Il 19 gennaio è stato il 20° anniversario della morte di Bettino Craxi, che con la fede ebbe un rapporto ricco ma complesso fin dall’infanzia. Da leader del Psi aprì le porte del partito ai cattolici, ma fece anche un discorso contro la linea di Giovanni Paolo II sul referendum sull’aborto. Eppure, poi, firmò il Concordato e imparò a stimare il Papa polacco, mandando a un certo punto in soffitta l’anticlericalismo socialista.

Il ventennio trascorso dalla morte e gli ottimi incassi del film dedicato alla sua storia hanno fatto tornare la figura di Bettino Craxi (24 febbraio 1934 – 19 gennaio 2000) al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. L’anniversario tondo del 19 gennaio è stata l’occasione, se non di una riabilitazione generale, almeno dell’avvio di una riflessione meno ideologica sulla parabola dell’ex segretario del Psi.

In questi giorni, il finale drammatico della stagione umana e politica del leader socialista è stato rievocato posando l’occhio sulla tomba bianca, orientata verso l’Italia, del cimitero cristiano di Hammamet, meta del pellegrinaggio laico di parenti, ex compagni di partito, vecchi militanti e giornalisti. Quella sepoltura porta in evidenza un aspetto trascurato nelle ricostruzioni odierne della parabola craxiana: quello del suo rapporto con la fede e il mondo cattolico in generale.

Figlio di un perseguitato politico per le sue idee socialiste, durante la Seconda Guerra Mondiale il giovanissimo Bettino venne mandato a studiare nel collegio arcivescovile di Cantù e qui si sentì chiamato alla vita sacerdotale. Quel richiamo non si spense con l’addio alla struttura, abbandonata per le difficoltà economiche successive al bombardamento della casa familiare che portò i Craxi a trasferirsi a Lambrate. Anzi, il piccolo Bettino divenne un “chierichetto diligente” nella vicina parrocchia di San Giovanni in Laterano, frequentatore fisso dell’oratorio e sempre pronto ad accompagnare don Franco Ceriotti, il vice parroco, a benedire case e salme. Craxi, anni dopo, ricordò quel periodo in una lettera al padre ritrovata poco tempo fa: “Stavo per ore sull’inginocchiatoio a fissare un dipinto con il volto della Sindone. E Gesù a un certo punto apriva le palpebre e mi guardava”.

Ad Hammamet, fino all’ultimo, amava raccontare anche di come si sentisse inseguito dallo sguardo di una Madonna dipinta in un quadro appeso alle pareti della sua parrocchia milanese. Lui stesso la definì “una vocazione mistica” che però non si concretizzò. A 17 anni, con il padre candidato senza successo sotto le insegne del Fronte Democratico Popolare, la scelta della militanza politica e l’iscrizione al Psi. Del partito fondato da Turati e Albertelli divenne segretario, guidando la cosiddetta rivoluzione dei quarantenni, nel 1976, sconfiggendo quella che in una recente intervista è stata definita da Gennaro Acquaviva “la componente laico-massonica di De Martino”. Acquaviva – proveniente dalle file del gruppo cattolico di sinistra Movimento Politico dei Lavoratori insieme a Livio Labor, Luigi Covatta e Marco Biagi – divenne uno dei suoi collaboratori più fidati fino ad assumere il ruolo di capo segreteria con l’arrivo a Palazzo Chigi.

L’era Craxi aprì ai cattolici le porte della dirigenza del partito più laicista dell’arco costituzionale. Eppure, proprio a lui si deve quello che è probabilmente il discorso più ‘antipapale’ pronunciato nell’aula di Montecitorio da un esponente della maggioranza: in occasione della fiducia al primo esecutivo guidato da Forlani nell’ottobre del 1980, il leader socialista criticò aspramente san Giovanni Paolo II e la Conferenza Episcopale Italiana per la posizione espressa, in conformità con l’insegnamento di sempre della Chiesa, sugli imminenti referendum sull’aborto. Craxi riconosceva come “assolutamente legittimo il diritto dell’autorità ecclesiastica a riaffermare i principi del cattolicesimo su di un problema di cui nessuno si nasconde la delicatezza, come quello dell’aborto, e a richiamare la donna-madre cattolica, cui spetta la scelta, al rispetto di fondamenti dottrinali della sua religione”, ma al tempo stesso addebitava la linea dettata da Wojtyla alle “difficoltà, forse, per un papa straniero (…) di cogliere la complessità della realtà italiana”, che “rischiano di riaprire la porta a contrapposizione e a contese che sembravano definitivamente cadute”.

Eppure, fu proprio lui, primo socialista a Palazzo Chigi, a firmare la revisione del Concordato tra Repubblica Italiana e Santa Sede nel 1984. Con quel “papa straniero” criticato nel durissimo discorso alla Camera, Craxi stabilì un ottimo rapporto dettato probabilmente dalla visione sulla realtà internazionale e dal comune sostegno a Solidarnosc. Non a caso, reduce dalla prima udienza in Vaticano, il premier commentò: “È un anticomunista formidabile”. San Giovanni Paolo II non rinnegò quella conoscenza negli anni del declino craxiano e proprio pochi mesi prima di morire, tramite don Verzé, fece sapere all’ex premier italiano di ricordarlo ogni mattina nella Messa celebrata nella sua cappella privata. Commosso, Craxi, disilluso verso tutto ciò che riguardava l’Italia, gli rispose con un biglietto: “Santo Padre, l’unica grande fiducia è in Lei”.

Nonostante la precedente adesione convinta a battaglie laiciste (inaccettabile per i cattolici), la segreteria craxiana ebbe il merito di mandare in soffitta il tradizionale anticlericalismo socialista (lo auspicava in un testo scritto peraltro nel ’68). E, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con la sconfitta del comunismo alle porte e l’attesa rivincita storica sul Pci, nel tentativo di insidiare la centralità democristiana nel sistema politico, aumentò l’attenzione verso quel mondo cattolico che – come raccontato da Gennaro Acquaviva – al ‘capo’ non era indifferente. Così, al congresso di Milano del 1989, Craxi rivendicò di avere in mente un partito “capace di conciliare i valori del socialismo con i valori del cristianesimo”. E non a caso, durante i Meeting di Rimini di quegli stessi anni, non erano pochi i ciellini a confessare di preferire il leader del Garofano alla linea “laicista e tecnocratica” di De Mita.

Al tempo stesso, il “Cinghialone” non riusciva a comprendere i motivi del ‘debole’ che esponenti dell’associazionismo cattolico e anche non pochi prelati sembravano nutrire per il Pci, quell’atteggiamento anticipatore del vicino abbraccio catto-comunista sulle macerie lasciate dal crollo dell’Urss e da Tangentopoli. Al Congresso, Craxi li tacciò di “provincialismo” e se la prese in particolare con i gesuiti, facendo una distinzione tra “quelli di piccolo cabotaggio e quelli di alto bordo”. L’impronta craxiana fece sì che, come scrisse don Baget Bozzo, “il socialismo italiano, non essendo più anticattolico, poteva diventare interamente nazionale”.

Non c’era solo la convenienza legata alla vocazione governativa, però, dietro la linea del segretario ma anche la convinzione, come ha raccontato sempre Acquaviva, che la “spiritualità fosse un elemento positivo per la laicità di una nazione” e che “senza i preti e la Chiesa l’Italia non andasse avanti, altrimenti il Paese si sarebbe disgregato e avrebbe preso una piega individualista”. Poco prima di morire, in un’intervista concessa a Famiglia Cristiana, l’ex presidente del Consiglio si autodefinì un “laico cristiano” e ad Hammamet fece celebrare Messe nella sua casa a don Mondini, oltre a chiedere a monsignor Lozza, arrivato da Roma per visitarlo in ospedale, di pregare per lui.

Il progetto socialdemocratico di Craxi, con la sua idea di laicità permeata dal “sentire profondamente i valori del cristianesimo e della loro congiunzione con i valori del socialismo, valori di altissima civiltà umana e morale”, naufragò con Tangentopoli e con la fine della Prima Repubblica, lasciando che lo spazio a sinistra del sistema politico venisse monopolizzato da quel “partito radicale di massa” preconizzato da Augusto Del Noce.


Fabrizio Caccia, Corriere della Sera, 19/1/2020


Giampiero Mughini per Dagospia 18/1/2020

Caro Dago, stamattina ci siamo ritrovati un gruppo di amici tutti abbastanza stagionati nella chiesa di Santa Maria in Trastevere ad una piccola cerimonia, una messa in memoria di Bettino Craxi. Eravamo non molti ma buoni, tutti delle brave persone. C’era l’ex braccio destro di Bettino, quel Giuliano Amato a me carissimo e di cui non smetterò di apprezzare la volta che  di notte tolse dai conti correnti degli italiani qualche spicciolo che serviva a impedire che il rosso del bilancio pubblico esplodesse. Quella sì la scelta di uno statista. C’era Gennaro Acquaviva, che nel 1976 era stato il capo della segreteria politica di Craxi. C’erano gli ex senatori socialisti e miei cari amici Bruno Pellegrino e Luigi Covatta, e con Bruno c’era sua moglie Daniela Viglione, per dire di una donna che non è mai rimasto un passo indietro rispetto al suo uomo. C’era Piero Craveri, che non vedevo da tempo, da quando era stato il compagno di vita di Ludovica Ripa di Meana. C’era Luigino Compagna, figlio dell’indimenticabile Chinchino Compagna. C’era l’ex ministro Andrea Riccardi e anche il mio vecchio amico Alberto Benzoni e anche Filippo Ceccarelli, uno dei giornalisti più indipendenti oltre che più bravi che io conosca, e lui se l’è messa in bocca l’ostia che porgeva il sacerdote, e a una mia domanda ha risposto che lui è un credente, cosa che io non sapevo.
Ti ripeto, un gruppo di brave persone, niente affatto adatte a figurare in un tuo “cafonal” che di certo attrarrebbe più che non una cerimonia cui partecipava un gruppo di persone dai capelli largamente imbiancati. Un gruppo di persone orgogliose di essere state lì in mezzo, al tempo della “battaglia delle idee” di cui Craxi fu un protagonista assoluto e indimenticabile. E pensare che lì accanto alla chiesa c’era la prima casa romana in cui aveva abitato l’allora mio grande amico Gianni Amelio, appena sbarcato da Catanzaro. A me è piaciuto eccome il suo film. Talvolta commosso. Così come mi hanno commosso le parole del sacerdote che officiava la messa e che nel riferire il destino umano di Bettino ha detto che è stato un destino pieno di contraddizioni, tumultuoso, drammatico. Un latitante? Solo un cretino potrebbe riempirsi le gote con un tale giudizio e esaustivo giudizio. Un latitante? Lo furono ciascuno a suo modo anche Giuseppe Mazzini e il primo Lev Trockij.
Io che in tutto e per tutto lo avrò visto in vita mia per dieci minuti o forse meno, in certi momenti del film di Amelio ero con le lacrime agli occhi. E mai mai mai dimenticherò le immagini di quel discorso alla Camera in cui Craxi rivolgeva il dito puntato a tutto l’emiciclo parlamentare, pronunziando alla maniera sua la domanda se qualcuno di loro ignorasse che la democrazia pluripartica si reggeva sul fatto che ciascun partito prelevasse illegalmente dei fondi. “C’è qualcuno di voi che non lo sa?”, e Bettino continuava a puntare il suo dito sul restante dell’aula. Silenzio assoluto, non un fiato, non una voce. E del resto in quella stessa Camera era stata votata all’unanimità qualche anno prima  – nel 1989 – una legge che amnistiava – per tutti i partiti –  il reato di prelievo illegale di fondi, il fatto di riscuotere delle tangenti. Sino al 1989 amnistiato completamente quel reato. Da tutti i partiti.

 

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